Ordinanza n. 29 del 2024

ORDINANZA N. 29

ANNO 2024

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da:

Presidente: Augusto Antonio BARBERA;

Giudici: Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», promosso dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e V. M., con ordinanza dell’8 marzo 2023, iscritta al n. 82 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2023.

Visti gli atti di costituzione dell’INPS e di V. M.;

udita nell’udienza pubblica del 10 gennaio 2024 la Giudice relatrice Maria Rosaria San Giorgio;

uditi gli avvocati Patrizia Ciacci per l’INPS e Alberto Guariso per V. M.;

deliberato nella camera di consiglio del 24 gennaio 2024.

Considerato in diritto

1.– Questa Corte deve pronunciarsi sulla compatibilità dell’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000 con gli artt. 3, 11, 38, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 34 CDFUE e all’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva (UE) 2011/98, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di Paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di Paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro.

Le questioni sono state sollevate dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, investita del ricorso promosso dall’INPS per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Firenze con la quale, in riforma della pronuncia di primo grado, era stata accolta la domanda di riconoscimento di assegno sociale avanzata da V. M., cittadina albanese titolare di permesso di soggiorno per motivi familiari, ma priva di permesso di soggiorno di lungo periodo.

1.1.– A sostegno delle censure di illegittimità costituzionale, il giudice a quo ha evocato disposizioni sia costituzionali, sia di diritto dell’Unione, ritenendo, in primo luogo, che la previsione in scrutinio confligga con il principio di parità trattamento nella sicurezza sociale sancito dall’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, il quale «dà espressione concreta al diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale di cui all’articolo 34, paragrafi 1 e 2, della Carta» (Corte di giustizia UE, in causa C-350/20, O.D. e altri).

In linea con quanto affermato dalla Corte di giustizia nella sentenza ora richiamata, il Collegio rimettente sottolinea che, a norma dell’art. 3 della citata direttiva, detto principio opera in favore sia dei cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi, sia dei cittadini extra UE che, come la parte privata controricorrente nel giudizio principale, sono titolari di un permesso di soggiorno per finalità diverse dall’attività lavorativa, ma che consente di lavorare.

A giudizio del rimettente, la norma oggetto di censura lederebbe, al contempo, l’art. 3 Cost., in quanto il principio di parità di trattamento nella sicurezza sociale, come delineato dalle citate fonti di diritto primario e derivato dell’Unione e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, interseca il principio costituzionale di eguaglianza e «ne avvalora e illumina il contenuto assiologico, allo scopo di promuovere una più ampia ed efficace integrazione dei cittadini dei Paesi terzi» (è citata la sentenza di questa Corte n. 54 del 2022).

La Corte di cassazione ritiene, infine, che la norma in scrutinio contrasti con l’art. 38, primo comma, Cost., attesa la «stretta correlazione esistente tra di esso e l’art. 34 CDFUE», il quale, come affermato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza 24 aprile 2012, in causa C-571/10, Kamberaj), nel riconoscere il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa, mira a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti.

2.– Tanto premesso, deve, anzitutto, ribadirsi che, nel caso in cui il giudice comune sollevi una questione di legittimità costituzionale che coinvolga anche le norme della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, questa Corte non può esimersi dal fornire una risposta con gli strumenti che le sono propri e che l’effetto diretto delle norme di diritto primario e derivato evocate dal giudice a quo (sentenza n. 67 del 2022, nonché Corte di giustizia UE, in causa C-350/20, O.D. e altri) non rende le odierne questioni inammissibili, in quanto esse prospettano il contrasto tra una disposizione di legge nazionale e diritti della Carta che «intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla stessa Costituzione italiana» (sentenza n. 149 del 2022).

3.– I dubbi di legittimità costituzionale sollevati involgono primariamente la questione interpretativa della riconducibilità, o meno, dell’assegno sociale ex art. 3, comma 6, della legge n. 335 del 1995 tra le prestazioni di sicurezza sociale rispetto alle quali i cittadini di Paesi terzi muniti di permesso di soggiorno per finalità lavorative o che, comunque, consenta di lavorare, beneficiano della parità di trattamento ex art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE.

Tale quesito esige preliminarmente una risposta nella prospettiva del diritto europeo e, poiché non è ancora stato oggetto di specifiche pronunce della Corte di giustizia, cui spetta la funzione di interpretare il diritto dell’Unione in modo tale da assicurarne l’uniforme applicazione in tutti gli Stati membri, si ritiene necessario interpellare, mediante il rinvio pregiudiziale, la Corte medesima affinché chiarisca, rispetto all’istituto di diritto interno che viene in rilievo nel caso di specie, la portata e gli effetti delle norme dell’Unione assunte a parametro interposto nell’odierno incidente di costituzionalità.

4.– In un quadro di costruttiva e leale cooperazione tra i diversi sistemi di garanzia (sentenza n. 269 del 2017; ordinanze n. 216 e n. 217 del 2021, n. 182 del 2020 e n. 117 del 2019), questa Corte reputa opportuno illustrare, anzitutto, i tratti salienti della disciplina nazionale applicabile.

5.– L’assegno sociale di cui si tratta è una prestazione in denaro che l’INPS eroga, su domanda, ai soggetti di età superiore a sessantacinque anni (dal 1° gennaio 2019, superiore a sessantasette anni) che versano in disagiate condizioni economiche, in quanto sono sprovvisti di reddito o lo percepiscono in misura inferiore alla soglia stabilita annualmente dalla legge nell’ammontare massimo dello stesso assegno in oggetto.

Tale provvidenza viene riconosciuta indipendentemente dalla circostanza che il beneficiario sia stato un lavoratore, ed ha natura «meramente assistenziale» (sentenza n. 137 del 2021).

L’assegno sociale mira, infatti, esclusivamente a far fronte allo stato di bisogno, derivante dall’indigenza, nel quale versano i soggetti sprovvisti di risorse economiche adeguate e che, a causa della vecchiaia, vedono scemare le proprie energie lavorative.

Esso si distingue, dunque, sia dalle prestazioni assistenziali che – come l’indennità di accompagnamento – sono preordinate a soccorrere il bisogno determinato dalla grave invalidità o dalla non autosufficienza dell’avente diritto (sentenze n. 137 del 2021, n. 12 del 2019 e n. 400 del 1999), sia dalle misure di sostegno che – come l’abrogato reddito di cittadinanza e il reddito di inclusione – sono motivate da ulteriori finalità, come il reinserimento lavorativo e l’inclusione sociale (sentenze n. 34 e n. 19 del 2022, n. 137 e n. 126 del 2021).

5.1.– Diverso dall’istituto in scrutinio è l’assegno sociale che opera come prestazione sostitutiva delle provvidenze per inabilità già in godimento. In quest’ultima ipotesi, che non riguarda la fattispecie in esame, una volta che l’invalido o inabile già titolare di prestazione di invalidità civile abbia raggiunto il limite di età suddetto, la pensione di inabilità e l’assegno di invalidità vengono automaticamente sostituiti dall’assegno sociale, sul quale si proietta la funzione previdenziale di protezione nel caso dell’evento avverso della disabilità.

5.2.– A norma dell’art. 3, comma 6, della legge n. 335 del 1995, il richiedente la prestazione in esame deve avere la cittadinanza italiana e la residenza in Italia. Ai cittadini italiani residenti in Italia sono equiparati quelli di uno Stato dell’Unione europea e, secondo quanto disposto dall’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000, oggetto di censura, i cittadini di Paesi terzi titolari della carta di soggiorno, titolo, questo, sostituito dal permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, di cui all’art. 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come sostituito dall’art. 1, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo).

5.2.1.– Il permesso di soggiorno di lungo periodo è concesso qualora ricorra una serie di presupposti che attestino la stabilità della presenza dell’interessato sul territorio, e il suo regime «si colloca nella logica di una ragionevole prospettiva di integrazione del destinatario nella comunità ospitante» (sentenza n. 34 del 2022). Più precisamente, in base all’art. 9, commi 1 e 2-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, il rilascio di questo titolo di soggiorno è condizionato alla sussistenza dei seguenti requisiti: a) «possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità»; b) «disponibilità di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale»; c) «alloggio idoneo»; d) «superamento, da parte del richiedente, di un test di conoscenza della lingua italiana». Il permesso è a tempo indeterminato (art. 9, comma 2, t.u. immigrazione) e tra le cause della sua revoca non è prevista la perdita dei requisiti sopra indicati (cioè, del reddito e dell’alloggio idoneo).

5.3.– Ai fini del riconoscimento dell’assegno sociale è, infine, necessario, ai sensi dell’art. 20, comma 10, del d.l. n. 112 del 2008, come convertito, che l’interessato abbia soggiornato legalmente, in via continuativa, per almeno dieci anni nel territorio nazionale.

Tale requisito riguarda tutti gli aventi diritto, ivi compresi i cittadini extra UE, e, per questi ultimi, concorre con quello della titolarità del permesso di soggiorno di lungo periodo (ex aliis, Corte di cassazione civile, sezione lavoro, sentenza 13 marzo 2023, n. 7229).

5.4.– Questa Corte si è già ripetutamente pronunciata sulla conformità dell’art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000, nella parte in cui subordina l’accesso a determinate provvidenze al possesso della (ex) carta di soggiorno, sia agli artt. 3 e 38 Cost., sia all’art. 14 CEDU.

5.4.1.– In riferimento alle citate disposizioni costituzionali, e con specifico riguardo all’assegno sociale di cui si tratta, la sentenza n. 50 del 2019 di questa Corte ha ritenuto non discriminatoria, né manifestamente irragionevole l’assunzione del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo a presupposto per godere di tale provvidenza economica.

La pronuncia ha evidenziato che la Costituzione impone di preservare l’eguaglianza nell’accesso all’assistenza sociale tra cittadini italiani e comunitari da un lato, e cittadini extra UE dall’altro, soltanto con riguardo a servizi e prestazioni che, nella soddisfazione di «un bisogno primario dell’individuo che non tollera un distinguo correlato al radicamento territoriale», riflettano il godimento dei diritti inviolabili della persona. In tale ipotesi la prestazione non è tanto una componente dell’assistenza sociale (che l’art. 38, primo comma, Cost. riserva al «cittadino»), quanto un necessario strumento di garanzia di un diritto inviolabile della persona (art. 2 Cost.).

Nella richiamata sentenza n. 50 del 2019 si è altresì affermato che, stante la limitatezza delle risorse disponibili, al di là del confine invalicabile appena indicato, rientra nella discrezionalità del legislatore graduare con criteri restrittivi, e persino escludere, l’accesso del cittadino extra UE a provvidenze ulteriori. Per esse «laddove è la cittadinanza stessa, italiana o comunitaria, a presupporre e giustificare l’erogazione della prestazione ai membri della comunità, viceversa ben può il legislatore esigere in capo al cittadino extracomunitario ulteriori requisiti, non manifestamente irragionevoli, che ne comprovino un inserimento stabile e attivo».

Tali provvidenze «divengono il corollario dello stabile inserimento dello straniero in Italia, nel senso che la Repubblica con esse ne riconosce e valorizza il concorso al progresso della società, grazie alla partecipazione alla vita di essa in un apprezzabile arco di tempo». Difatti, la titolarità del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo postula, diversamente dalla mera residenza legale in Italia, la produzione di un reddito, la disponibilità di un alloggio e la conoscenza della lingua italiana, che costituiscono «indici non irragionevoli di una simile partecipazione».

Nella sentenza n. 50 del 2019 si è, quindi, concluso che rientra «nella discrezionalità del legislatore riconoscere una prestazione economica al solo straniero, indigente e privo di pensione, il cui stabile inserimento nella comunità lo ha reso meritevole dello stesso sussidio concesso al cittadino italiano».

5.5.– La richiamata pronuncia converge con la più generale e costante affermazione della giurisprudenza costituzionale secondo la quale il legislatore può legittimamente circoscrivere la platea dei beneficiari delle prestazioni sociali in ragione della limitatezza delle risorse destinate al loro finanziamento, purché rispetti gli obblighi europei, che esigono, tra l’altro, la parità di trattamento tra i cittadini italiani ed europei e i cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo, e il principio di ragionevolezza. Ciò sempre a condizione che la distinzione non si traduca «nell’esclusione del non cittadino dal godimento dei diritti fondamentali che attengono ai “bisogni primari” della persona, indifferenziabili e indilazionabili, riconosciuti invece ai cittadini» (sentenza n. 166 del 2018; in senso conforme, ex aliis, le sentenze n. 54 del 2022 e n. 222 del 2013).

6.– Quanto alle disposizioni del diritto dell’Unione europea rilevanti nell’odierno giudizio, ferma restando la competenza esclusiva della Corte di giustizia a fornirne l’interpretazione uniforme, nello spirito di collaborazione che caratterizza i rapporti tra le Corti, si prospettano i seguenti argomenti.

6.1.– La direttiva 2011/98/UE persegue l’obiettivo di «garantire l’equo trattamento dei cittadini dei Paesi terzi che soggiornano regolarmente nel territorio degli Stati membri», nella prospettiva di «una politica di integrazione più incisiva» (considerando n. 2), e di «ridurre la disparità di diritti tra i cittadini dell’Unione e i cittadini di paesi terzi che lavorano regolarmente in uno Stato membro» (considerando n. 19).

Ai cittadini provenienti da Paesi terzi che già «contribuiscono all’economia dell’Unione con il loro lavoro e i loro versamenti di imposte» (considerando n. 19), la direttiva ha, infatti, inteso attribuire un «insieme comune di diritti, basato sulla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro ospitante, a prescindere dal fine iniziale o dal motivo dell’ammissione» (considerando 20), precisando che il diritto alla parità di trattamento nei settori dalla stessa specificati «dovrebbe essere riconosciuto non solo ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi, ma anche a coloro che sono stati ammessi per altri motivi e che hanno ottenuto l’accesso al mercato del lavoro di quello Stato membro in conformità di altre disposizioni del diritto dell’Unione o nazionale» (considerando n. 20).

6.2.– In consonanza con tali linee programmatiche, l’art. 12, paragrafo 1, della direttiva in esame riconosce il diritto alla parità di trattamento nella sicurezza sociale sia ai «cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale» (art. 3, paragrafo 1, lettera c), sia ai «cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002» (art. 3, paragrafo 1, lettera b).

Il conseguimento di uno dei suindicati titoli di soggiorno non è, tuttavia, sufficiente affinché lo straniero benefici dello stesso regime di sicurezza sociale accordato ai cittadini dello Stato membro che lo ospita, essendo anche richiesto che in tale Stato egli svolga o abbia svolto un’attività lavorativa.

L’art. 12, paragrafo 1, si riferisce, infatti, espressamente ai «lavoratori dei paesi terzi di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere b e c)» e, proprio in ragione di tale condizione, accorda loro il diritto alla parità di trattamento in relazione ad una serie di ambiti di disciplina afferenti ai momenti più significativi del rapporto di lavoro, tra i quali figura anche quello della protezione sociale.

6.3.– Coerentemente, dal punto di vista oggettivo, la garanzia di parità di trattamento di cui al paragrafo 1, lettera e), dello stesso art. 12 opera per quanto concerne «i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento (CE) n. 883/2004», ossia in relazione agli ambiti disciplinari, indicati nell’art. 3, paragrafo 1, di detto regolamento, corrispondenti ad una serie di rischi connessi, anche indirettamente, al rapporto di lavoro.

6.3.1.– È appena il caso di ricordare che quest’ultima disposizione si colloca in una fonte di diritto derivato dichiaratamente volta a realizzare l’obiettivo, ora enunciato nell’art. 48 TFUE, di favorire la mobilità della forza lavoro nel mercato comune attraverso il miglioramento del livello di vita e delle condizioni di occupazione delle persone che circolano nel territorio dell’Unione per finalità lavorative.

Il regolamento (CE) n. 883/2004 detta, infatti, norme di coordinamento – e non di armonizzazione (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 25 novembre 2020, in causa C-303/19, INPS) – dei regimi nazionali della sicurezza sociale, volte a garantire, nel rispetto delle caratteristiche proprie di ciascuna legislazione (considerando n. 4), che i cittadini degli Stati membri, gli apolidi e i rifugiati e i loro familiari e superstiti – nonché gli stessi cittadini di Paesi terzi, ai quali, come meglio si dirà più innanzi, la normativa in esame è stata resa applicabile –, che si spostano nel territorio dell’Unione per lavoro, fruiscano dei medesimi vantaggi sociali riservati ai lavoratori cittadini dei Paesi membri ospitanti.

6.4.– Ciò posto, i «settori della sicurezza sociale» di cui fa menzione l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE sono elencati all’art. 3, paragrafo 1, del suddetto regolamento e definiscono l’«[a]mbito d’applicazione “ratione materiae» (come recita la stessa rubrica dell’art. 3) della disciplina di coordinamento delle legislazioni nazionali. Si tratta, in particolare, dei «settori di sicurezza sociale riguardanti: a) le prestazioni di malattia; b) le prestazioni di maternità e di paternità assimilate; c) le prestazioni d’invalidità; d) le prestazioni di vecchiaia; e) le prestazioni per i superstiti; f) le prestazioni per infortunio sul lavoro e malattie professionali; g) gli assegni in caso di morte; h) le prestazioni di disoccupazione; i) le prestazioni di prepensionamento; j) le prestazioni familiari».

6.5.– Lo stesso art. 3, al paragrafo 3, precisa che il regolamento (CE) n. 883/2004 «si applica anche alle prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo di cui all’articolo 70», mentre, al paragrafo 5, esclude dal relativo ambito di operatività, tra l’altro, l’assistenza sociale e medica.

Il citato art. 70, al paragrafo 1, individua le «prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo», denominate anche “miste” o “ibride”, in quelle provvidenze «previste dalla legislazione la quale, a causa del suo ambito di applicazione ratione personae, dei suoi obiettivi e/o delle condizioni di ammissibilità, ha caratteristiche tanto della legislazione in materia di sicurezza sociale di cui all’articolo 3, paragrafo 1, quanto di quella relativa all’assistenza sociale».

E sempre l’art. 70, al paragrafo 2, chiarisce che le prestazioni in esame sono quelle «a) intese a fornire: i) copertura in via complementare, suppletiva o accessoria dei rischi corrispondenti ai settori di sicurezza sociale di cui all’articolo 3, paragrafo 1, e a garantire, alle persone interessate, un reddito minimo di sussistenza in relazione al contesto economico e sociale dello Stato membro interessato; oppure ii) unicamente la protezione specifica dei portatori di handicap, strettamente collegate al contesto sociale del predetto soggetto nello Stato membro interessato; e b) relativamente alle quali il finanziamento deriva esclusivamente dalla tassazione obbligatoria intesa a coprire la spesa pubblica generale e le condizioni per la concessione e per il calcolo della prestazione, non dipendono da alcun contributo da parte del beneficiario. Tuttavia, le prestazioni concesse ad integrazione della prestazione contributiva non sono da considerare prestazioni contributive per questo solo motivo; e c) sono elencate nell’allegato X».

7.– Tanto premesso, l’assegno sociale italiano, qui in scrutinio, figurando nel citato Allegato X, risulta espressamente annoverato tra le prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo.

Il giudice rimettente assume che, poiché il regolamento (CE) n. 883/2004, all’art. 3, paragrafo 3, dispone che dette prestazioni ricadono nel proprio ambito di operatività e l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, nel delimitare il perimetro applicativo del principio di parità di trattamento, rinvia ai settori della sicurezza sociale definiti dal suddetto regolamento, anche le prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo – e, tra esse, l’assegno sociale – beneficerebbero di tale garanzia.

In proposito, si osserva quanto segue.

Il rinvio operato dall’art. 12, paragrafo 1, lettera e), ai settori della sicurezza sociale definiti dal regolamento (CE) n. 883/2004 non sembra consentire un’automatica estensione del principio di parità di trattamento a tutte le prestazioni sociali ricadenti nel dominio della fonte regolamentare, ostandovi tanto la formulazione testuale della norma richiamante, quanto la ricostruzione sistematica della disciplina richiamata.

7.1.– Anzitutto, l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva in questione, nell’individuare le prestazioni presidiate dal divieto di discriminazione, non rimanda a tutte le provvidenze inscrivibili nel perimetro applicativo del regolamento (CE) n. 883/2004, ma più precisamente alle prestazioni correlate ai «settori della sicurezza sociale» da questo definiti, da identificarsi con gli specifici ambiti della sicurezza sociale individuati dall’art. 3, paragrafo 1, dello stesso regolamento, sopra menzionati.

Inoltre, come già evidenziato, lo stesso art. 12, paragrafo 1, attribuisce il diritto alla parità di trattamento ai cittadini dei Paesi terzi indicati nell’art. 3, paragrafo 1, lettere b) e c), identificandoli come «lavoratori», là dove le prestazioni speciali ex art. 70 del predetto regolamento, rispetto ai cittadini dello Stato sede dell’istituzione debitrice, non presuppongono necessariamente una connessione, diretta o indiretta, con un rapporto di lavoro e dunque con un rapporto contributivo.

7.2.– Deve, altresì, rilevarsi che, nell’ambito della disciplina di coordinamento dettata dal regolamento (CE) n. 883/2004, le prestazioni “miste” esibiscono autonomi connotati strutturali e funzionali rispetto alle prestazioni di sicurezza sociale volte a far fronte agli eventi indicati nel paragrafo 1 dell’art. 3 del medesimo regolamento.

A differenza di queste, le prestazioni speciali di carattere non contributivo forniscono una copertura dei suddetti rischi non già diretta, ma «complementare, suppletiva o accessoria», intesa a «garantire, alle persone interessate, un reddito minimo di sussistenza in relazione al contesto economico e sociale dello Stato membro interessato».

Deve, poi, considerarsi che, tra le provvidenze di cui si tratta, l’art. 70, paragrafo 2, lettera a), ii), dello stesso regolamento annovera significativamente anche quelle che offrono «unicamente la protezione specifica dei portatori di handicap, strettamente collegate al contesto sociale del predetto soggetto nello Stato membro interessato».

Infine, le prestazioni in esame sono finanziate esclusivamente attraverso la fiscalità generale intesa a coprire la spesa pubblica generale, e le condizioni per la concessione e per il calcolo del dovuto non dipendono da alcun contributo da parte del beneficiario.

7.2.1.– La Corte di giustizia dell’Unione europea ha, al riguardo, affermato che la prestazione speciale in denaro di carattere non contributivo è caratterizzata da una finalità diversa da quella propria delle prestazioni di sicurezza sociale, dovendo costituire «una sostituzione o un’integrazione di una prestazione previdenziale e presentare i caratteri di un aiuto sociale giustificato da motivi economici e sociali e deciso da una normativa che fissa criteri obiettivi» (Corte di giustizia, sentenza 29 aprile 2004, in causa C-160/02, Skalka, punto 25). Essa ha «natura assistenziale, soprattutto per il fatto che la concessione della prestazione prevista prescinde dal compimento di periodi di attività lavorativa, di iscrizione o di contribuzione assicurativa, si avvicina tuttavia sotto altri aspetti al settore della previdenza sociale» (Corte di giustizia delle Comunità europee, sentenza 20 giugno 1991, in causa C-356/89, Newton, punto 13).

7.3.– Proprio in ragione delle indicate caratteristiche il regolamento (CE) n. 883/2004 riserva alle prestazioni “miste” (richieste dallo straniero al Paese membro ospitante) un regime parzialmente diverso rispetto a quello, improntato alla parità di trattamento (art. 4), dettato per le prestazioni di sicurezza sociale di cui al precedente art. 3, paragrafo 1.

Ad esse, infatti, il citato art. 70, al paragrafo 3, prevede che non si applichi il principio della esportabilità che, invece, il precedente art. 7 pone a presidio delle prestazioni di sicurezza sociale.

Per effetto di tale deroga, l’art. 70, paragrafo 4, chiarisce, infatti, che le prestazioni “miste” «sono erogate esclusivamente nello Stato membro in cui gli interessati risiedono e ai sensi della sua legislazione […] dall’istituzione del luogo di residenza e sono a suo carico».

Il legislatore europeo ha inteso, così, condizionare l’accesso alle prestazioni in esame al radicamento del richiedente nel territorio dello Stato chiamato a sopportare l’onere finanziario della erogazione.

7.4.– La nozione di residenza presupposta dalla regola della non esportabilità, da individuarsi, ai sensi dell’art. 1, lettera j), dello stesso regolamento (CE) n. 883/2004, nel «luogo in cui una persona risiede abitualmente», si fonda sul fatto oggettivo della stabile permanenza dell’interessato nel luogo scelto come dimora abituale.

Ciò significa che, nel caso in cui tale luogo si trovi in uno Stato membro diverso da quello di cui l’interessato ha la cittadinanza, la residenza qui in esame può ritenersi sussistente soltanto se ricorrono anche i requisiti richiesti per il soggiorno permanente in un Paese dell’Unione diverso da quello d’origine.

Per i cittadini dell’Unione viene, pertanto, in considerazione la direttiva 2004/38/CE e in particolare, l’art. 7, paragrafo 1, a mente del quale ciascun cittadino dell’Unione per poter soggiornare per un periodo superiore a tre mesi nel territorio di un altro Stato membro, deve essere un lavoratore subordinato o autonomo nello Stato membro ospitante o disporre, per sé e per i propri familiari, di risorse economiche sufficienti, affinché non divenga un onere a carico dell’assistenza sociale dello Stato membro ospitante durante il periodo di soggiorno, e deve essere munito di un’assicurazione malattia che copra tutti i rischi nello Stato membro ospitante.

Infine, a norma dell’art. 16, paragrafo 1, della stessa direttiva 2004/38/CE, i cittadini dell’Unione acquisiscono il diritto di soggiorno permanente dopo aver soggiornato legalmente e in via continuativa per cinque anni nel territorio dello Stato membro ospitante.

7.5.– Alla luce delle fonti normative richiamate, la Corte di giustizia ha osservato che le prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo sono concesse, ai sensi dell’art. 70, paragrafo 4, del regolamento (CE) n. 883/2004, esclusivamente nello Stato membro di residenza dell’interessato e conformemente alla normativa dello stesso, con la conseguenza che «nulla osta a che la concessione di tali prestazioni a cittadini dell’Unione economicamente inattivi sia subordinata al requisito che essi soddisfino le condizioni per disporre di un diritto di soggiorno nello Stato membro ospitante ai sensi della direttiva 2004/38» (Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, sentenza 11 novembre 2014, in causa C-333/13, Dano e altro, punto 83).

Analoghe considerazioni si rinvengono nella sentenza 15 settembre 2015, in causa C-67/14, Alimanovic e altri e nella sentenza 25 febbraio 2016, in causa C-299/14, Vestische Arbeit Jobcenter Kreis Recklinghausen, nelle quali la Corte di giustizia, richiamando le affermazioni della sentenza 19 settembre 2013, in causa C‑140/12, Brey, ha precisato che, poiché le prestazioni speciali in denaro di carattere non contributivo ex art. 70, paragrafo 2, del regolamento (CE) n. 883/2004 sono concesse, ai sensi del paragrafo 4 del medesimo articolo, esclusivamente nello Stato membro di residenza dell’interessato e conformemente alla normativa dello stesso, nulla osta – neppure il principio di parità di trattamento enunciato all’art. 4 del citato regolamento – a che tali prestazioni siano negate a cittadini di altri Stati membri che non abbiano lo status di lavoratore subordinato o autonomo o a persone che mantengano tale status durante i primi tre mesi del loro soggiorno nello Stato ospitante.

Se, dunque, in mancanza di tali condizioni, i cittadini dell’Unione non possono fruire delle prestazioni “miste” presso un Paese membro diverso da quello di cui hanno la cittadinanza, a maggior ragione gli Stati membri non dovrebbero essere tenuti ad accordare dette provvidenze ai cittadini extra UE che non dimostrino un significativo radicamento nel loro territorio, attestato, in primo luogo, dallo svolgimento di un rapporto di lavoro.

8.– D’altronde, la disciplina europea di coordinamento della sicurezza sociale, originariamente concepita per i soli cittadini comunitari che si spostano nel territorio dell’Unione a fini lavorativi, è stata successivamente estesa ai cittadini appartenenti a Paesi terzi, ma residenti regolarmente nel territorio comunitario per svolgervi un’attività lavorativa, dapprima dalla giurisprudenza (sentenza Corte di giustizia delle Comunità europee, sentenza 12 ottobre 1978, in causa C-10/78, Belbouab) e, in seguito, dal legislatore, per effetto delle raccomandazioni scaturite dal Consiglio europeo straordinario di Tampere del 15 e 16 ottobre del 1999, che aveva sollecitato l’adozione di misure atte a garantire l’equo trattamento dei cittadini dei Paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio degli Stati membri, ad assicurare loro diritti e obblighi analoghi a quelli dei cittadini dell’Unione, a rafforzare la non discriminazione nella vita economica, sociale e culturale, nonché a ravvicinare lo status giuridico dei cittadini dei Paesi terzi a quello dei cittadini degli Stati membri.

Per quanto riguarda, in particolare, il regolamento (CE) n. 883/2004, l’estensione ai cittadini di Paesi terzi cui tale fonte di diritto derivato non fosse già applicabile unicamente a causa della nazionalità è stata disposta mediante il regolamento (UE) n. 1231/2010 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 novembre 2010, che estende il regolamento (CE) n. 883/2004 e il regolamento (CE) n. 987/2009 ai cittadini di Paesi terzi cui tali regolamenti non siano già applicabili unicamente a causa della nazionalità.

L’attuale disciplina di coordinamento della sicurezza sociale si applica, quindi, sia ai cittadini di Paesi membri che si spostano nel territorio dell’Unione per finalità lavorative, sia ai cittadini di Paesi terzi regolarmente soggiornanti in uno Stato membro, che, parimenti, «si trovino in una situazione che non sia confinata, in tutti i suoi aspetti, all’interno di un solo Stato membro» (art. 1 del regolamento n. 1231/2010/UE). Tale ultima disposizione chiarisce, infatti, che anche per i cittadini extra UE l’applicazione della disciplina in esame postula uno spostamento dell’interessato nel territorio dell’Unione (come previsto dal considerando n. 13 del regolamento CE n. 883/2004).

Dalla equiparazione operata dal regolamento n. 1231/2010/UE deriva che i cittadini di Paesi terzi che si spostano nel territorio dell’Unione europea, al pari di quelli dei Paesi membri, per poter godere delle prestazioni in denaro di carattere non contributivo ex art. 70 del regolamento (CE) n. 883/2004, devono avere un rapporto di contribuzione con il sistema previdenziale dello Stato cui richiedono la provvidenza.

8.1.– Ciò considerato, il principio di parità di trattamento sancito dall’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE non può attribuire ai cittadini di Paesi terzi muniti dei titoli di legittimazione di cui all’art. 3, paragrafo 1, lettere b) e c), una tutela più ampia di quella delineata dalla disciplina di coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, cui la stessa direttiva fa rinvio.

9.– Pare, dunque, a questa Corte che i cittadini di Paesi terzi ai quali si applica l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE possano beneficiare dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui soggiornano soltanto se lavoratori e con esclusivo riferimento alle prestazioni relative ai settori di sicurezza sociale elencati all’art. 3, paragrafo 1, del regolamento (CE) n. 883/2004, mentre, per poter fruire delle speciali prestazioni di cui all’art. 70 del medesimo regolamento – nel cui novero si inscrive l’assegno sociale in scrutinio – non possono che sottostare alle condizioni per esse espressamente previste dalla stessa disciplina di coordinamento nonché dalla legislazione dello Stato ospitante.

9.1.– In conclusione, questa Corte dubita che la sola titolarità di un permesso di soggiorno che consente di lavorare ai sensi della citata direttiva conferisca al cittadino extra UE il diritto di accedere alle prestazioni “miste” alle stesse condizioni dei cittadini del Paese membro in cui soggiorna.

Di qui la necessità di richiedere alla Corte di giustizia l’interpretazione delle disposizioni del diritto dell’Unione che incidono sulla soluzione delle sollevate questioni di legittimità costituzionale.

10.– Questa Corte ritiene, pertanto, di sospendere il giudizio in corso e di sottoporre alla Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 267 TFUE, il quesito se l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2011/98/UE, quale espressione concreta della tutela del diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale riconosciuta dall’art. 34, paragrafi 1 e 2, CDFUE, debba essere interpretato nel senso che nel suo ambito di applicazione rientri una provvidenza come l’assegno sociale ex art. 3, comma 6, della legge n. 335 del 1995 e se, pertanto, il diritto dell’Unione osti ad una normativa nazionale che non estende agli stranieri titolari del permesso unico di cui alla medesima direttiva la provvidenza sopra citata, già riconosciuta agli stranieri a condizione che siano titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dispone di sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, la seguente questione pregiudiziale:

se l’art. 12, paragrafo 1, lettera e), della direttiva (UE) 2011/98 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di Paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di Paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro, quale espressione concreta della tutela del diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale riconosciuta dall’art. 34, paragrafi 1 e 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, debba essere interpretato nel senso che nel suo ambito di applicazione rientri una provvidenza come l’assegno sociale ex art. 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), e se, pertanto, il diritto dell’Unione osti ad una normativa nazionale che non estende agli stranieri titolari del permesso unico di cui alla medesima direttiva la provvidenza sopra citata, già riconosciuta agli stranieri a condizione che siano titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo;

2) sospende il presente giudizio sino alla definizione della suddetta questione pregiudiziale;

3) ordina la trasmissione di copia della presente ordinanza, unitamente agli atti dei giudizi, alla cancelleria della Corte di giustizia dell’Unione europea.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 gennaio 2024.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Maria Rosaria SAN GIORGIO, Redattrice

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 27 febbraio 2024